The gallery: Mick Rock, il destino nel cognome

festivalbar November 28, 2018
The gallery: Mick Rock, il destino nel cognome

“Mi chiamo Rock, Mick Rock”, parafrasando il vecchio Bond.
Mick Rock non è un nome d’arte, è che a volte la vita infila il destino nel tuo nome.
E succede che Mick, classe 1948, un giorno, quasi per caso, si trova tra le mani una macchina fotografica. Per tener fede al suo cognome, il destino lo colloca nel posto giusto al momento giusto. Nel pieno del glam, del punk e del rock, Mick inizia a fotografare le star e quelle che lo sarebbero diventate.
Moda e pubblicità non gli interessano, lui cerca il sogno, l’eccesso, il rock’n’roll.

Delle rockstar ama l’energia che sprigionano sul palco, il senso di libertà che trasmettono perché a Mick Rock, come ha dichiarato lui stesso in un’intervista di qualche tempo fa, “non interessa l’anima, ma l’aura”:

La vita personale non conta per me. Conta il carisma, la speciale energia elettromagnetica che emanano i soggetti, in genere i cantanti. Li riconosci perché vedi la loro proiezione. David Bowie e Freddie Mercury suonavano davanti a 100 persone e si comportavano come se ne avessero milioni. Si percepivano grandi, lo sarebbero presto diventati.

La storia di Mick Rock è raccontata in un documentario, “SHOT! The Psycho-Spiritual Mantra of Rock” (il sottotitolo è legato alla sua passione per lo yoga), dedicato a due leggende della musica.

Due amici geniali. Bowie uno spirito illuminato, Lou poeta, un Baudelaire dei nostri tempi. Hanno cambiato il modo in cui la gente pensava, ebbero grande impatto sulla cultura, abbatterono il tabù della sessualità, e le loro canzoni sembrano scritte oggi.

A Mick Rock si devono più di cento copertine di album, alcune delle quali hanno letteralmente fatto la storia: “Queen II” dei Queen (ispirata a Marlene Dietrich in “Shangai Express”), “Transformer” di Lou Reed (nata da uno scatto sbagliato e fuori fuoco), “The Madcap Laughs” di Syd Barrett, poeta maledetto del rock.

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